Tu che mi fissi dall’altra parte del tavolo, lo sento che mi stai percorrendo ogni centimetro del corpo. Anche se non ti vedo lo posso sentire il peso di uno sguardo fisso sulle gambe, sulle braccia fino poi al viso. Il movimento dei capelli e questi orecchini sempre in movimento distolgono solo l’attenzione: tu vuoi vedere il resto. Quello che non ti e’ concesso vedere, capire e toccare; ma forse allora e’ meglio se prima ti racconto la mia storia. Come tutte le cose bisogna conoscersi prima di andare nel personale.
Mi vedi cosi’, forse innocua e sorridente ma non puoi immaginare quanto sono forte e dura dentro. E non lo dico per scoraggiarti, ma semplicemente perché il passare degli anni mi hanno fatto diventare cosi’. Fin da piccola sono sempre stata una bambina solare; la mia terra mi ha sempre regalato i migliori giochi, gli interminabili pomeriggi con gli amici e le lunghe corse nei prati. Questa e’ stata la mia infanzia, ed e’ durata fino all’eta’ di nove anni, quando poi tutto e’ cambiato.
Mio padre era pastore, mia mamma casalinga e mai avrei pensato di lasciare quest’isola per approdare su un’altra ma molto più grande. La vita a quel tempo passava tra un pascolo e l’altro, in mezzo agli animali e con quegli amici stretti con la quale sei sempre cresciuta e che formano una sorta di famiglia allargata dalla quale sembrerebbe impossibile staccarsi. Eppure l’ho fatto, o meglio l’ho dovuto fare per il bene mio e dei miei genitori. Per quella situazione che non sembrava più’ così’ idilliaca e bucolica ma solo difficile da accettare. Perché poi la vita non puo’ essere sempre così felice, ed io l’ho scoperto in tenera eta’.
Un pomeriggio di sole, giocando con il vento tra i capelli ancora lunghi e non tinti, correvo più forte di tutti. Ero in testa, questa volta la gara l’avrei vinta io! La fine era vicina, pensavo già al sapore della vittoria e a come avrebbero rosicato i miei amici il giorno dopo quando mi sarei vantata a scuola. Da quel momento non ricordo più’ niente. A svegliarmi e’ poi un bip elettronico e costante (come quello del microonde) ma con una frequenza più’ rallentata. Io non riesco a sentire nulla, come se la mente fosse sospesa nel buio dell’universo. Ancora oggi vedo quel nero, così’ scuro che a volte sembra possa risucchiarmi, ma che poi si attenua appena sento una voce familiare.
Mi sembra di essermi svegliata da un lungo sonno, da uno di quelli in cui fai diversi sogni e che poi ricordandoli al mattino ti lasciano un po’ perplessa. Sento una porta aprirsi e mia mamma che si butta su di me, io continuo a essere nel mio mondo nero e a sentire solo le voci. Una voce maschile invita mia mamma ad allontanarsi, e lei muta ubbidisce. Di mia mamma ricordo le lacrime calde sulle mie guance e le mani tremanti attorno al collo. Il dottore comincia a parlare, mi spiega dove sono, dove mi hanno trovato e poi con un respiro profondo mi chiede: “riesci a capire cosa ti e’ successo?”
Perplessa e ormai paralizzata dalla paura faccio cenno di no. Il medico si schiarisce la voce e comincia a raccontarmi quella che e’ la congiunzione tra la corsa nei campi e il risveglio in ospedale. La gara la stavo vincendo per davvero, ma poi sono inciampata. Quello che mi ha fatto cadere non e’ stato un ramo o una radice sporgente, bensì un rimasuglio del tempo passato: una bomba. Una volta caduta mi spiega che avrei cercato di raccogliere quello strano oggetto, ma che attivato dal mio movimento mi sarebbe esploso tra le braccia.
Il coma e’ stato lungo, le operazioni tante, e tu stai fissando quello che e’ rimasto del mio corpo. Le gambe sono piene di cicatrici, le braccia sono solo più’ dei moncherini e in viso porto i segni di quella esplosione. Non ti posso vedere mentre mi scruti perché sono completamente cieca, e mi piace muovere i capelli corti e rossi con gli orecchini lunghi per sentirmi ancora donna. Ma lo sento che mi stai guardando, così’ come sentivo i commenti nel mio paesino, così come sentivo mia mamma che di notte piangeva per avere in casa una figlia devastata. Avevo nove anni, oggi 37 e sono dura. Per essere arrivata fino a qua da sola, senza l’aiuto dei miei genitori, degli amici o dei parenti sono dovuta diventare la roccia a cui aggrappare quel che rimaneva di me stessa e tu in fondo mi fissi perché vorresti avere la mia sicurezza e determinazione. E io ti lascio guardare perche’ mi dispiace dirtelo, ma e’ un qualcosa che si può’ ottenere solo dopo aver attraversato le nubi dell’animo.